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La minaccia nucleare lanciata da Putin, gli insulti ai leader ucraini e gli avvertimenti pesanti nei confronti dell’Europa segnalano un leader russo in difficoltà e costretto ad affrontare una situazione che probabilmente non aveva previsto ed un’evoluzione della guerra sul terreno che sta diventando di non facile gestione per l’esercito russo.

Il capo del Cremlino ha deciso di lanciare nel cuore della vecchia Europa una tipica guerra del novecento con carri armati, truppe che avanzano nel fango, città bombardate, sangue e morte, con un coinvolgimento crescente di civili compresi i bambini.

Da questi primi cinque giorni di una guerra – che secondo diversi analisti potrebbe durare a lungo – emergono due elementi in parte imprevisti.

Vladimir Putin © EPA

Il leader russo Vladimir Putin

La minaccia nucleare lanciata da Putin, gli insulti ai leader ucraini e gli avvertimenti pesanti nei confronti dell’Europa segnalano un leader russo in difficoltà e costretto ad affrontare una situazione che probabilmente non aveva previsto ed un’evoluzione della guerra sul terreno che sta diventando di non facile gestione per l’esercito russo.

Il capo del Cremlino ha deciso di lanciare nel cuore della vecchia Europa una tipica guerra del novecento con carri armati, truppe che avanzano nel fango, città bombardate, sangue e morte, con un coinvolgimento crescente di civili compresi i bambini.

Da questi primi cinque giorni di una guerra – che secondo diversi analisti potrebbe durare a lungo – emergono due elementi in parte imprevisti.

Da un lato alcuni errori di valutazione compiuti da Mosca, dall’altro un colpo di reni dell’Unione europea che, all’interno del fronte occidentale, ha mostrato unità, solidarietà e un coraggio che ha pochi precedenti nella storia comunitaria.

Sostanzialmente gli errori compiuti dalla Russia, dal punto di vista strategico, sono tre, al di là della ‘madre di tutti gli errori’ che è ovviamente quello di aver deciso di dichiarare una guerra terribile decidendo di risolvere una controversia tra Stati con le armi, abbandonando il dialogo diplomatico e la geopolitica. Il primo errore è quello di aver sottovalutato la capacità di reazione ucraina, che si basa non soltanto sulle capacità militari ma, soprattutto, sull’orgoglio, sul coraggio e la compattezza di una nazione democratica che si è unita intorno al simbolo della resistenza, il presidente Zelensky.

Il secondo errore è quello di aver previsto una divisione all’interno dell’Occidente che, al contrario, è stato capace di superare i diversi punti di vista in nome del bene comune e di creare un fronte unito contro Mosca con sanzioni dure e condivise. Il terzo errore è quello di non aver previsto un piano B. Nel momento in cui è fallita la ‘guerra lampo’ che avrebbe dovuto piegare l’Ucraina in pochi giorni, i generali russi sono ora di fronte ad un dilemma davvero atroce: usare tutta la potenza dell’esercito russo con un enorme numero di morti e distruzioni o rimanere nel guado di questa guerra che potrebbe durare davvero a lungo.

In questa fase emerge una nuova Europa con una determinazione trovata nel momento più buio. L’Unione europea, per la prima volta nella sua storia, sta mandando armi ad un Paese in guerra e sta costruendo una vera e concreta politica estera e di difesa comune. Si tratta di una grande novità per l’Ue che in futuro potrà, se proseguirà su questa strada, arrivare una vera identità di difesa comune, vale a dire un esercito europeo. La guerra l’Europa la fa con le sanzioni, chiudendo lo spazio aereo europeo alla Russia, eliminando Mosca dal circuito Swift della transazioni internazionali. I risultati sono sorprendenti. La borsa di Mosca oggi non ha aperto, il rublo è crollato al minimo storico con una perdita del 30%. Le proteste crescono nel Paese mentre anche gli alleati storici di Mosca, a cominciare dalla Cina, sono sempre più perplessi per le azioni del Cremlino.

L’ orrore e lo sgomento per l’invasione dell’Ucraina rimangono, ma adesso c’è anche una reazione che al Cremlino non avevano previsto in queste dimensioni. E, proprio per questo, la situazione sta diventando ancora più pericolosa.

(Fonte israel today e ansa)
   

Franco Bechis, direttore del Tempo, fa un’analisi a 360 gradi della mossa di Beppe Grillo, che ieri ha di fatto licenziato l’avvocato del popolo ed ex premier, Giuseppe Conte.

“Il colpo di testa di Beppe Grillo non colpisce solo il Movimento 5 stelle e le bimbe forse inconsolabili di Giuseppe Conte. Mette nei guai Enrico Letta e il suo Pd, e può cambiare anche la navigazione di Mario Draghi, agitando non poco le acque nei prossimi mesi. Il segretario del Pd aveva infatti giocato gran parte della sua scommessa sull’alleanza non tanto con i 5 stelle, ma con l’ex premier che pensava li avrebbe guidati. Letta non si è chiesto quale mandato avesse Conte  per chiudere con lui le possibili alleanze elettorali a Napoli e in Calabria (anche a Bologna, ma lì è stato decisivo Massimo Bugani), e ora rischia di trovarsi con un pugno di mosche. Conte non aveva infatti alcun mandato, non essendo nemmeno iscritto al M5s, e con la mossa di Grillo ora anche quegli accordi scricchiolano e non hanno fondamento politico certo. Vero che su Napoli c’è anche la firma di Luigi Di Maio, che però ha seguito Conte pensandolo come il nuovo leader e non ha voluto ostacolarlo davvero. Ma c’è un altro terremoto alle porte, perché liquidando Conte ora Grillo ha messo in moto la procedura per la nomina di un nuovo direttorio come ai vecchi tempi, che è una soluzione certo organizzativa ma non politica. Ed è invece di spazio e azione che ha bisogno il fondatore del movimento per fare digerire a militanti ed eletti questa clamorosa rottura che non andrà giù a gran parte di loro con un semplice alka-seltzer. E lo spazio non c’è finché sono tutti murati all’interno della maggioranza di unità nazionale che accompagna il governo Draghi”.

“Dovessi fare una scommessa oggi – continua Bechis – punterei le mie fiches su un Papeete bis di inizio agosto, questa volta con Grillo a preparare il mojito: per assorbire il contraccolpo di questa rottura e ridare una rotta al suo movimento, è probabile che dopo il divorzio da Conte sia necessario aggiungere quello da Draghi. Una mossa che in un momento sicuramente delicato per il M5s ricompatterebbe le sue varie anime e anche buona parte dei sostenitori, chiudendo la lunga parentesi governista. Ne soffrirebbe sicuramente qualcuno (di sicuro Luigi Di Maio), ma si riaprirebbero le porte per Alessandro Di Battista e per tutti i parlamentari (fra cui Nicola Morra e Barbara Lezzi) che si sono messi fuori non votando la fiducia all’esecutivo Draghi. Non lasciare sola Giorgia Meloni all’opposizione potrebbe dare anche qualche vantaggio nei sondaggi, in attesa delle mosse di Conte, ma soprattutto farebbe riaffiorare le radici anti-sistema del movimento, che nessuno solo qualche tempo fa avrebbe mai immaginato sorreggere un esecutivo guidato da uno con la storia di Draghi. Senza i grillini il governo andrebbe avanti lo stesso – e in ogni caso – la rottura avverrebbe dopo il 3 agosto, durante il semestre bianco che impedisce elezioni. Sulla carta potrebbe contare su almeno 384 voti alla Camera e su 191 al Senato, numeri di cui non hanno potuto godere i governi degli ultimi dieci anni, e quindi la navigazione non sarebbe a rischio. Ma in entrambe le Camere l’azionista di maggioranza sarebbe il centrodestra di governo, che ne avrebbe circa due terzi e quindi sarebbe in grado di imporre a Draghi l’agenda politica”.

Fonte foto (Ansa e Il Fatto Quotidiano)

Romani Prodi, la vecchia volpe della prima Repubblica, che nella vita ha acchiappato quasi tutto, tranne forse il sogno della sua vita: quello di salire sullo scranno più alto del paese ovvero il Quirinale. Parla a ruota libera in un’intervista rilasciata al Corriere.it, dove per prima cosa chiarisce la sua indisponibilità a fare il Presidente della Repubblica.

Tra nove mesi si vota per il Quirinale, con Sergio Mattarella che sembra non guardare ad un secondo mandato. “Se si parla di indisponibilità, ne ha un’altra, la mia. Non ho l’età, come cantava Gigliola Cinquetti: nel senso però che ne ho troppa, quasi 82 anni. E poi sono stato un uomo di parte, e in fondo lo sono ancora. Credo che su Mattarella influiranno la sua volontà e gli eventi. Personalmente lo sento il mio presidente della Repubblica. Mi rende tranquillo e credo che renda tranquilla l’Italia”. 

Un vero e proprio assist a Mattarella, per un bis che però lo stesso presidente della Repubblica ha da sempre escluso. Ma come si dice in politica mai dire mai. Lo stesso Giorgio Napolitano, in “illo tempore”, dichiarò la sua indisponibilità per poi accettare o forse subire la rielezione. E’ anche vero che i tempi erano altri ma oggi, in piena pandemia, certamente per Mattarella sarebbe difficile declinare l’offerta di una seconda chance in nome di un equilibrio che lo stesso Prodi gli riconosce e che all’Italia è indispensabile.

E poi continua lodando il neo segretario del Pd, Enrico Letta.  “Tutti conoscono il rapporto di amicizia e fiducia che ho verso Enrico: lo chiamai a Palazzo Chigi come sottosegretario che era un ragazzo. Ebbene, il ragazzo è cresciuto. In Europa si è rafforzato e accreditato. E io, da spettatore più che da protagonista, per quanto angosciato dal debito che cresce, sono fiducioso: al Quirinale, a Palazzo Chigi e nel Pd ci sono le persone che più stimo. Se l’Italia non vince ora non vincerà mai”.

Poi parla di Salvini che definisce “imbertinottato…”. Sì il leader della Lega afferma Prodi “si è messo nella scia di Bertinotti”. E mette in guardia Mario Draghi dalla “sindrome classica delle coalizioni”. Non ha mai dimenticato l’esperienza di Governo del 1996 quando fu Bertinotti a fare cadere il suo governo e che, oggi, potrebbe vedere proprio Salvini nei panni del segretario di Rifondazione comunista.

Aggiunge poi il Professore: “Fai una scelta drastica, come quella di Bertinotti di coalizzarsi con l’Ulivo. Poi cominci a perdere consensi e la cosa ti fa diventare matto. E allora alzi la posta. Ti impunti anche sul niente, ogni giorno di più. Ma attenzione: questo fa perdere voti, non guadagnarli”. E fa cadere i Governi, “ma Draghi ha molte più riserve. È una grande differenza” spiega Prodi, che già agli albori dell’ascesa dell’ex numero uno della Bce avvertiva che gli italiani spesso “attendono un salvatore per poi crocifiggerlo”. In questo caso Salvini “non crocifigge Draghi solo perché non ha il martello. Ma alza la posta. Fa prevalere il suo interesse di parte”.

Come fece con Giuseppe Conte. Quindi a Mario Draghi consiglia di “fare presto. Ma ha più tempo per vedere e mostrare al Paese i risultati positivi della sua azione, anche se tra pochi giorni, poche ore dovrà presentare il suo piano a Bruxelles. Con Conte si percepiva una tensione montante”. La sfida è la crescita con le riforme per una gestione del debito, che ”è un rischio enorme”.

(fonte foto copertina globalist.it)

Le passerelle non mi sono mai piaciute. Tanto per essere chiari quelle che i politici sono soliti usare per costruirsi l’alibi perfetto. Un modo per pulirsi la coscienza, quando la presenza diventa soltanto la cartina di tornasole del problema. E nell’alchimia dei loro gesti c’è il peggio del peggio. E’ come rispolverare il vecchio stereotipo dell’eredità precedente.

Quel modello che si applica, con preciso e puntuale rigore, sempre all’indomani di una vittoria elettorale. Si rievoca il disastro creato dalle precedenti gestioni e il gioco è fatto. Come un’equazione matematica che non ha colore politico ma un risultato non opinabile, perchè fatta soltanto di numeri da comporre. Lo ha fatto Crocetta prima, Musumeci dopo e come in un rilancio da poker sia Cammarata che Orlando e non solo loro. Uno sport per il quale non si hanno rivali. E se si potesse trovare un modo per candidarli sarebbero tutti da premio Nobel.

Intanto gli “ultimi” rimangono sempre là, sospesi in un limbo. In quel precipizio fatto da false promesse, da costruzioni senza fondamenta. E in quei palazzi di carta ci si accorge solo del problema quando è troppo evidente che il problema stesso è percepibile a tutti. In quell’istante gli “esclusi” diventano preda e la “solidarietà” diventa per loro un obbligo morale. Perchè immaginare una politica a servizio di chi soffre è la “tempesta perfetta”. Quella che non vorresti mai vedere davanti ai tuoi occhi, ma che all’improvviso ti colpisce come un’onda anomala. E la protesta di Biagio Conte, che da giorni dorme sotto i portici del palazzo delle Poste di via Roma, ne è testimonianza.

Il “primato della politica” allora viene sotterrato come un’ascia da guerra. Si continua a renderlo inerme, a indebolirlo. E le passerelle, invece, sembrano essere perfette con tutta la loro ipocrisia. Nessuno potrebbe obiettare quell’atto nobile, quel contributo ideale, quella vicinanza. Momenti che poi si perdono nell’oblio. E gli “ultimi” rimangono sempre “ultimi”, non perchè lo vogliano, ma perchè uomini che vivono la loro dignità fino in fondo. Ma domani tutto continuerà con lo stesso ritmo e con gli stessi proclami, in una terra che definire “irredimibile” non significa essere qualunquisti, ma guardare quell’orizzonte che sembra inarrivabile.

Quella del #Covid è una guerra senza “bombe”. Piaccia o non piaccia ma è così. E quando si è in “guerra” si combatte uniti al di là degli steccati. Un Paese diviso da inutili e dannose arti retoriche è soltanto una cartina geografica e nulla di più. Poi toccherà alla storia scrivere la storia, ma solo dopo che la battaglia sarà definitivamente vinta.

Purtroppo non vedo un #Churchill all’orizzonte, e intendo riferirmi, per non essere frainteso, a tutto l’arco istituzionale. E non si tratta di facile esercizio lessicale, ma di quel senso dello Stato oggi perduto. E citando, umilmente, la frase pronunciata da #Churchill contro #Hitler che voleva invadere l’Inghilterra durante la seconda guerra mondiale: “non si può ragionare con una tigre quando la tua testa è nella sua bocca”, la politica dovrebbe avere il coraggio di svestirsi dai propri abiti consunti che da fin troppo tempo indossa e, tutti uniti, costruire la gabbia per “combattere”, “catturare” e “uccidere” questa “tigre”.

Perché la forza morale di un popolo si vede sempre dalle proprie azioni e i continui sofismi a cui assistiamo da entrambe le “barricate”, ormai non servono più. Servono, invece, gesti decisi. Ma questi appartengono solo agli uomini coraggiosi, agli statisti a chi veramente ha la capacità di superare logiche e interessi per il bene comune. Il tempo degli scontri è finito. Adesso è l’ora di costruire un argine, una trincea e poi ritornare a “combattere”, ognuno, per i propri ideali…

“Un provvedimento che metterà definitivamente in ginocchio le attività produttive coinvolte e il settore della cultura e dello spettacolo, già duramente provati dal lockdown di marzo. Con queste chiusure, di fatto, si consegnerà il sud alla mafia e all’usura”.

Così l’europarlamentare della Lega, Francesca Donato, stigmatizza le nuove disposizioni contenute nel nuovo Dpcm del premier Giuseppe Conte. Una dura presa di posizione alle già tantissime polemiche che in queste ore stanno alimentando malcontento da parte

“Nessun intervento economico a sostegno dei cittadini e delle imprese in difficoltà è previsto a fronte di questo provvedimento – aggiunge l’esponente leghista – mentre la possibilità, per la maggior parte delle attività coinvolte e all’indotto, di poter sopravvivere a questo nuovo lockdown, è soltanto una chimera. Assisteremo all’inevitabile chiusura e poi ad una mancata riapertura di migliaia e migliaia di attività commerciali, di ristorazione e di intrattenimento, con la perdita di altri milioni di posti di lavoro e l’esplosione della povertà a livelli incontenibili”.

“Il governo Conte, ignorando totalmente le richieste delle associazioni di categoria, delle regioni e dell’opposizione, sta colpendo i settori strategici che muovono l’economia del nostro paese, dimostrando al contempo di non aver saputo predisporre in sei mesi un sistema sanitario capace di tutelare i propri cittadini, malgrado il loro comportamento esemplare durante la chiusura totale del primo lockdown e i sacrifici già sopportati. Dunque, il giudizio sul suo operato e su quello del suo governo è quello di un fallimento totale che, purtroppo, pagheremo chissà per quanti anni”.

“Ciò che più mi preoccupa ora è la prevedibile esplosione della rabbia e della protesta, assolutamente comprensibile, da parte di chi sta subendo tutto ciò, dopo aver investito denaro per adeguarsi alle normative in materia di distanziamento e di tutela della salute. Prepariamoci ad assistere a proteste ancora più dure: il pericolo di un’escalation della tensione sociale è altissimo”. E pone alla fine del suo intervento una domanda: “cosa intende fare il governo se i cittadini scenderanno in piazza a protestare? Reprimere il dissenso con la violenza, come nelle dittature? Sarebbe interessante saperlo”.

Arcani a cui crediamo sarà sicuramente difficile poter ricevere delle risposte, ma confidiamo sempre nella “Sibilla Cumana” governativa che, fulminata sulla via di Damasco, riuscirà a trovare, forse, soluzioni e le tante agognate risposte.

Il direttore del Corriere della Sera, Luciano Fontana, analizza in un video il risultato del referendum e delle regionali.

“Le elezioni della spallata – dice Fontana – si sono trasformate nelle elezioni della stabilità che può portare questo governo fino alla fine della legislatura. Tra Partito democratico e Cinquestelle l’unità degli elettorati c’è. A questo punto il M5S deve decidere che cosa vuole fare da grande. Uno dei dati di questo voto è che il centrodestra è molto forte nel Paese”.

IL VIDEO

La Palermo semplice, viva, autentica e profumata è una città che non c’è più. Chi ne ha vissuto i fasti la immagina soltanto nei propri ricordi, come scatti ingialliti di una vecchia polaroid.

Quella della passeggiata alla Marina, delle domeniche in bicicletta tra i vialetti di villa Sperlinga, del giardino Inglese, della Palazzina Cinese, di Villa Giulia con il leone “Ciccio”, delle mitiche sfogliatelle dell’Extra bar di piazza Politeama, dell’immancabile rito dell’Autista al “Pinguino” (clicca qui per leggere un ricordo) e dell’indimenticabile mangiata di polpi a Mondello tra le baracche dei pescatori che, anche se abusive, avevano un fascino unico. Tanto per citare quelli che mi vengono a mente.

Ma nel palcoscenico degli amarcord della nostra cara amata Palermo, c’è anche quella martoriata dai morti ammazzati di mafia degli anni ‘80, che si segnavano tristemente come i giorni sul calendario della “naja” militare. Le immagini di quello “scannamento” che sembrava non finire mai.

E se quel buio di morte e di sangue “mascariava” la bellezza e la storia della capitale di Sicilia a quel tempo, comunque, si respirava un’altra aria. E non il livello di Pm10 (polveri sottili tanto per intenderci) che era già presente, ma  un’aria che malgrado tutto, so bene non riuscirò più a sentire sulla mia pelle.

Una città che si nutriva di se stessa, della propria forza, in un tessuto commerciale ancora solido che ne era ossatura economica e di sviluppo. Oggi, invece, è un susseguirsi di saracinesche abbassate, di magazzini in affitto e di procedure fallimentari con numeri davvero da day after. Per non parlare del degrado e dell’inesistente senso civico dei cittadini, unito ad un’Amministrazione che poco ha fatto tra annunci di task force più o meno “fallite”.

La foto di questo pezzo è sicuramente figlia dell’inciviltà ma anche dell’indifferenza di quella politica che nella propria agenda, dopo anni di governo, avrebbe dovuto mettere al primo punto il decoro. E, invece, niente, perchè in fondo non è una questione di colore politico ma soltanto di scelte, sempre e, comunque, sbagliate. Per essere chiaro nessun amministrazione ha veramente affrontato il problema.

E che dire dei tantissimi cartelli di vendita e di affitto, affissi quasi in ogni condominio. E il mio pensiero va a tutti i nostri genitori che nel boom economico degli anni ‘60 hanno sacrificato la propria vita per costruire l’agognato “tetto”.

E non parlatemi per favore di retorica, di populismo o dell’alibi della crisi, perché proprio dietro la retorica e la crisi si sono consumati i più grandi scempi. La verità è che Palermo è dannatamente vittima di se stessa anche se la si vuole ostinatamente dipingere come la #FelicissimaPalermo.

Di lei rimarrà solo quella foto ingiallita di un’epoca passata che forse, nel bene e nel male, abbiamo avuto la fortuna di vivere. Vediamo e vedremo sì, le migliaia di turisti che la visitano ogni anno ma che, oltre agli scatti della Palermo d’arte, immortaleranno la nostra “munnizza” quasi come “scalpo” da esibire per una città irrimediabilmente “irredimibile”, come in un triste esercizio di parole.

A fare l’analisi dell’attuale del post esito del voto, ancora a favore di Matteo Salvini che ha espugnato la “roccaforte” della sinistra in Basilicata, è Antonio Polito, vicedirettore del Corriere della Sera, in un video su Corriere.it

“Come in un racconto gotico, in Italia c’è un fantasma che vince tutte le elezioni: il centrodestra. Anche in Basilicata ha fatto il pieno, strappando alla sinistra una sua regione storica. Salvini esulta, sette a zero dice. Ma anche in Basilicata Salvini non vince da solo. Berlusconi e Meloni messi insieme sono ancora decisivi per fare la maggioranza. Però Salvini, prima e dopo le vittorie del centrodestra, chiarisce che il centrodestra non esiste, e che l’alleanza con i Cinquestelle durerà tutta la legislatura. Quando Salvini lo dice, nessuno pare credergli. Molti pensano che farà saltare il banco dopo le europee per andare alle elezioni anticipate, prima di dover scrivere una legge di bilancio lacrime e sangue. Può essere. Ma in quel caso che cosa proporrà in quel caso agli elettori? Di mandare al governo una coalizione che lui dice che non esiste? O chiederà la maggioranza assoluta alla Lega? Mentre vince le elezioni regionali, un nuovo centrodestra targato Salvini non dovrebbe cominciare a dirci che cos’è?”

IL VIDEO

La sintesi è questa: Salvini vince anche se, in Sardegna, nonostante lo straordinario impegno profuso, non trasforma in oro tutto quello che tocca (ma su questo torneremo tra un pò); Di Maio, e il dato è davvero clamoroso, registra un’incredibile ecatombe; il centrosinistra di Massimo Zedda, inteso come coalizione larga, inclusiva, rinnovata, come avvenuto due settimane fa in Abruzzo, esiste.

Questi i numeri, a scrutinio ancora in corso che, appunto dopo l’Abruzzo, fotografano non un caso isolato, ma la tendenza di un umore che avanza nel paese: il centrodestra, nel suo insieme, è una coalizione maggioritaria, col 47 per cento dei voti; il centrosinistra al 33; i Cinque Stelle attorno al 10 per cento. Sono le cifre di un evidente ribaltamento dei rapporti di forza rispetto al 4 marzo. Che certificano, e non è un dettaglio, quanto questo Parlamento non sia più specchio del paese, inteso come consenso reale dei partiti e con una coalizione che nei territori ha quasi il 50 per cento, ma non governa a Roma. Anche se, diciamolo subito: non c’è nessun automatismo tra questo elemento e una precipitazione della crisi dei governo, per il semplice motivo che Salvini non ha la certezza che l’apertura di una crisi porterebbe alle elezioni anticipate. E perché, ormai è chiaro a chiunque, il leader leghista non ha alcuna intenzione di resuscitare, a livello nazionale, la vecchia alleanza con l’ammaccato Berlusconi. In fondo, è proprio questo “strano” assetto di governo ad aver consentito e consentire la sua operazione sovranista e la costruzione di una egemonia nell’ambito di una nuova destra.

La notizia è, innanzitutto, la crisi dei Cinque Stelle, che passano dal 42,5 dello scorse politiche al 10 cento. Mai si era visto, nella storia nazionale, un partito che in un anno disperde il 32 per cento dei consensi. In Abruzzo non funzionò una campagna gestita in prima persona dai suoi leader, che avevano impresso una torsione estremista e di lotta su gilet gialli e Tav, politicizzando il voto e persero la metà dei voti. In Sardegna non ha funzionato la loro assenza – praticamente non si sono visti – e l’incapacità di intercettare la protesta autonomista, spoliticizzando il voto. E hanno perso tre quarti dei voti, franando ben sotto il 20 per cento anche nelle roccaforti di Carbonia e Porto Torres dove governano. Proprio questo “non azzeccarne una” dà il senso di una crisi profonda, identitaria, a cui Luigi Di Maio si appresta a dare una risposta tutta organizzativa – le liste civiche, le nuove regole, più struttura, diciamo così partitica – ma non politica. Nel senso che, come due settimane fa, il leader pentastellato continua ad eludere la non irrilevante questione di fondo, su quali siano le ragioni profonde che rischiano di portare alla liquidazione un soggetto capace, solo un anno fa, di suscitare aspettative di cambiamento di larga parte del paese. L’analisi dei flussi chiarirà meglio dove stanno andando i voti del Movimento, se verso l’astensione, verso la Lega o verso entrambe. Però è un dato di fatto che, da quando il Movimento è al governo, non solo perde sempre, il che alle amministrative è sempre accaduto, ma arriva terzo, il che rappresenta una novità. Sta accadendo cioè che nei territori sta risuscitando quell’Italia bipolare tra centrodestra e centrosinistra che proprio l’avanzata del movimento aveva fatto saltare, fondando un nuovo ordine politico tripolare.

Ed è proprio questo dato, non locale ma tutto politico, che spiega una certa inquietudine che serpeggia dentro la Lega. Dicevamo: Salvini vince, ma in Sardegna non trasforma in oro tutto quello che tocca. Alle politiche la Lega, assieme al partito Sardo d’Azione, conquistò il 10,79. Oggi, in Sardegna, la Lega è al 12,4, il Partito Sardo d’Azione al 9,6. La somma (oltre il 20) rappresenta senza dubbio una avanzata rispetto a un anno fa, peraltro in una coalizione con ben 11 liste, dunque ad alta dispersione del voto. E anche nell’Isola conferma una egemonia della Lega nel centrodestra: Forza Italia dimezza i voti passando dal 15 al 7,5; Fratelli d’Italia passa dal 4 al 5,3.

Però, rispetto al 26 per cento dell’Abruzzo, quella di Salvini non è stata una cavalcata trionfale, considerato l’impegno profuso. Il leader della Lega, in queste settimane, si è praticamente trasferito in Sardegna, ha riempito le piazze, ha battuto palmo a palmo l’Isola, ha affrontato di petto la questione dei pastori. Il dato, per quanto soddisfacente, non dà l’idea di una inarrestabile spinta propulsiva in vista delle Europee. Non ha caso si aspettava un 18-20, per festeggiare come due settimane fa. Certo, c’è il candidato Christian Solinas che non ha entusiasmato nelle performance. Però, ecco l’inquietudine, anche per Salvini c’è una riflessione che riguarda l’effetto governo. La domanda è: quanto la sua capacità attrattiva, che finora c’è stata, può prescindere da un esperimento di governo che sta diventando un caso di scuola di un crescente immobilismo? Tav, autonomie, l’incubo di una manovra correttiva. Sono in tanti che, in queste ore, stanno suggerendo al Capitano una riflessione su quanto, in prospettiva, proprio l’implosione dei Cinque Stelle rischia di essere letale anche per la Lega. Se non la crisi, mosse che diano il senso di una sterzata. E mai, come in queste ore, si registra una spaccatura crescente tra Salvini, comunque convinto nell’andare avanti con questa esperienza di governo, e il grosso del mondo politico leghista, concorde con Giancarlo Giorgetti che questo governo sia diventato un impiccio da cui liberarsi al più presto.

Per la seconda volta dal 4 marzo, torna il centrosinistra. E anche questo è un trend. Zedda, come Legnini, resuscita una coalizione che supera il 30 per cento. Un anno fa era al 17,6, col Pd al 14,8. Il centrosinistra, non il Pd che è attorno al 13. È una indicazione a livello nazionale: candidati con esperienze istituzionali o di buon governo, coalizioni che esprimono un progetto, fine dell’autosufficienza di questi anni diventata vocazione minoritaria, capacità di ascolto, poca arroganza. Non una alternativa compiuta, ma una indicazione su cui lavorare. E già questo, visti i tempi, non è poco.