di Gaetano Càfici. Bisogna sempre dare un senso alla vita. Cercare disperatamente, anche nel buio della propria esistenza, quella forza per farcela non lasciandosi scivolare nel pozzo, che poi è sempre senza fondo. La tossicodipendenza e l’alcolismo sono due bestie dalle mille “teste”, ne uccidi una e ne ricresce un’altra. Una metamorfosi che sembra impossibile fermare. Ma in questa città, forse senza speranza, incrociare  “belle” storie e farle raccontare da chi ha vissuto questi drammi è forse un modo per credere ancora alla speranza. Il gioco di parole spero sia perdonato!
Fabrizio Sausa e Francesco Rappa (nella foto da sinistra a destra), a causa della tossicodipendenza avevano perso tutto. Poi l’ingresso nella comunità San Onofrio di Trabia, il cammino di recupero e il ritorno alla vita.  E, oggi, il loro contributo di lavoro, tinteggiando a colori forti le pareti del nuovo Centro di accoglienza per tossicodipendenti, da poco inaugurato a Palermo, in via del Granatiere, e gestito dall’Istituto Don Calabria. Spazi per i quali hanno “firmato” l’allestimento dei locali e che accoglieranno persone e storie simili alle loro.
 
Fabrizio ha 45 anni e li vive attraverso un percorso di recupero non ancora completo, ma guardando fiducioso al futuro. “Gli operatori della comunità mi hanno raccolto per strada sei anni fa. Mi hanno accolto, pulito, disintossicato. Mi hanno fatto diventare un uomo, mi hanno fatto ritrovare i desideri e la voglia di fare progetti. Avevo avuto una borsa lavoro ma dopo dieci mesi fuori dalla comunità c’era stata una piccola ricaduta. Così oggi sono di nuovo in comunità, ma autonomo, e aspetto un nuovo lavoro. Guardo avanti con fiducia, questo è l’importante”.
 
Francesco, invece, di anni ne ha 39. Dopo quindici anni trascorsi a convivere con problemi di alcolismo, nove anni fa aveva iniziato a fare uso di cocaina ed era sprofondato. “Mi ero ritrovato completamente solo. Avevo perso mia moglie, i miei figli, mio padre e mia madre. Desideravo morire. Il solo a starmi vicino era mio cognato, e infatti fu lui a portarmi in comunità. Poco a poco ho recuperato la voglia e la forza di vivere e oggi vedo la vita in un modo diverso. Lavoro in proprio, faccio l’imbianchino. Anche se ormai non sto più in comunità, parlo sempre con gli operatori perché tra noi è rimasto un bellissimo rapporto e li considero un punto di riferimento. Ma la cosa più importante è che sono tornato a vivere con mia moglie e i miei figli, e che siamo felici”.
 
In fondo, non è mai troppo tardi  per provare ad usare  un “pennello”, per ridipingere la propria vita e, chissà,  aiutare gli altri a farlo.