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Con un discorso drammatico, perché non ha nascosto nulla della gravità senza precedenti della crisi in corso, Mattarella ha annunciato un suo governo a partiti dimostratisi incapaci di farne uno loro. Un governo «neutrale», «di servizio», composto da persone non ricandidabili, con scadenza comunque a dicembre; perché un governo in ogni caso serve, anche se si vuole tornare alle urne, perfino se si vuole votare, per la prima volta nella storia della Repubblica, in piena  estate.

Il problema è che M5S e Lega, cioè più della metà del Parlamento, hanno già risposto che voteranno contro questo governo, negandogli dunque la possibilità di fare ciò che sta a cuore al Presidente, e in verità dovrebbe stare a cuore a tutti: arrivare a dicembre per fermare l’aumento dell’Iva, evitare il rischio di una speculazione sui mercati contro un Paese troppo a lungo senza guida, contare qualcosa quando a giugno in Europa si deciderà su questioni cruciali come i
migranti. Avendo finora impedito che nascesse un esecutivo politico, ora i partiti possono impedire anche che ne nasca uno non politico.

Il potere di dare la fiducia appartiene a loro, dunque anche la responsabilità. Il risultato è che, come mai dal 1948, il nostro sistema parlamentare non si è rivelato in grado di dare un esito al voto popolare. La legislatura sta morendo
prima di nascere. E niente ci assicura, vista la legge elettorale e i suoi risultati, che la prossima volta sarà diversa. I due «vincitori» del primo turno ovviamente ci sperano, e già definiscono questo secondo turno elettorale un ballottaggio.

Ma la storia è piena di democrazie azzoppate dal ripetersi di elezioni inutili: i cittadini votano per avere un governo, non per il gusto dell’agonismo. Soprattutto quando il torneo appare così smaccatamente condizionato dalle ambizioni
personali dei leader, dalla fretta che hanno di vincere per non essere disarcionati, o dalla speranza di tornare in pista pur avendo perso.

Così lo scontro politico di questi due mesi si è trasformato, inevitabilmente, in una grave tensione istituzionale. Tra i partiti ha prevalso il giochino del pop corn. È una metafora più volte usata in questa crisi. Ogni volta che qualcuno voleva sfuggire alle sue responsabilità, se ne usciva dicendo: «Ora ci compriamo i pop corn e ci divertiamo». Il che stava a dire: voglio proprio vedere come se la sbrogliano gli altri. O anche: tanto peggio, tanto meglio per me, che almeno mi diverto (sottinteso: conquisto altri voti). Si sono divertiti tutti, pare; e adesso vogliono che il pop corn lo compriamo noi elettori e ci sediamo ad assistere al più straordinario degli spettacoli politici mai visti: la seconda campagna elettorale in sei mesi.

Questa propensione al gioco del cerino non è purtroppo tipica solo del nostro sistema politico: in troppi campi gli
italiani preferiscono che perda pure l’avversario, se non possono vincere loro. Ma in politica si gioca con il bene comune. E nessuno tra i protagonisti di questa crisi è esente da colpe. Né chi avendo preso molti voti aveva la responsabilità di accettare i compromessi inevitabili a far nascere un governo di coalizione. Né chi, avendo preso meno voti, ha pensato solo a mettersi di traverso per dimostrare che gli elettori si erano sbagliati. La crisi si è così trasformata in un minuetto: ciascuno dei tre schieramenti maggiori mancava dei parlamentari necessari per fare un governo, ma nessuno dei tre è riuscito ad allearsi con un altro per ottenerli.

Lo scambio di accuse finali ha il solo scopo di prendere la posizione migliore per la griglia di partenza del nuovo gran premio elettorale. Così ora non ci resta che scoprire se si voterà a luglio, addirittura l’otto, la data che con una certa presunzione Di Maio e Salvini hanno ieri indicato a Mattarella, unico titolato in materia; oppure a fine luglio, visto che prima è difficile anche tecnicamente, quando cioè alcuni milioni di italiani saranno in meritate vacanze; o in autunno, come Berlusconi preferirebbe, distinguendosi in questo da Salvini. Fino a dicembre, come vorrebbe Mattarella, nelle  attuali condizioni non pare possibile arrivarci. Il suo invito alla responsabilità per il momento non è stato accolto. C’è ancora qualche ora per ripensarci. Ma la legge di Murphy dice che se una cosa può andare male, andrà male. E questa legislatura è finora andata così male da far disperare che si possa riprendere in articulo mortis.

(Antonio Polito, Corriere della Sera)